5.

Durante la riunione cercai di rimanere in silenzio il più possibile, se veniva chiesta la mia opinione cercavo di dare risposte quanto più generali possibili. Una volta finito quello strazio, mentre Mark riordinava i suoi documenti lo presi per un braccio e gli dissi che dovevo parlargli. Andammo in quello che si supponeva fosse il mio ufficio. Una stanza enorme con una grossa vetrata che dava sulla città. La scrivania di legno scuro dominava al centro. – Che succede? – mi chiese chiudendosi la porta alle spalle. – Mark, mi devi dare una mano. La mia vita è impazzita. – dissi cercando di mantenere la calma, dovevo trovare le parole giuste per spiegargli cosa stesse succedendo. – Mark? Chi diavolo è Mark? – mi guardò come uno strano fenomeno da baraccone. – Tu… Come ti chiami? – chiesi con cautela per non scatenare reazioni eccessive. – Martin, che hai fumato ieri sera? – scossi il capo. Non stava funzionando. – Ascoltami, qualunque sia il tuo nome, mi devi dare una mano. – mi appoggiò le mani sulle spalle vedendomi agitato – Mi chiamo Richard, mi vuoi dire che da succedendo? – Richard? che diavolo di nome era. Lui era Mark non Richard. Cercai di scacciare questo fastidio dalla mente e cominciai a parlare. Gli dissi del flashback di sangue e vetri rotti, gli raccontai di Emma e che dovevo assolutamente trovarla, e cercai di convicerlo parlandogli della nostra amicizia nella vita di prima.

Fammi capire bene, mi stai dicendo che ti sei svegliato da una mattina all’altra, in un’altra vita, con altre persone ed un altro nome. Che vuoi ritrovare tua moglie anche se non sai minimamente dove possa essere e che vita stia conducendo, e vuoi un aiuto da me? – Annuii. – Martin, io e te, in questa vita qui abbiamo un rapporto lavorativo, niente di più. Mi dispiace ma davvero non so come aiutarti. – si girò, guardandomi con diffidenza, e si avviò verso la porta. – Hai il terzo e quarto dito del piede uniti. – dissi. Si girò e mi fissò. – Mi ha sempre fatto un po’ schifo devo dirtelo, ma è una di quelle cose che ti rende particolare ai miei occhi. Quando sei triste vai da solo al cinema, il cellulare non te lo porti mai, perchè sai che verrei a cercarti. Sei allergico alle fragole, appena ne mangi una rischi di finire in ospedale perchè ti gonfi come un pallone, però ti piacciono e quindi da coglione che sei puntualmente stai male. Ti piacciono le donne ispaniche, Dio quante te ne sei fatte, potresti essere l’uomo più innamorato del mondo, ma se un’ispanica ti si avvicina non riesci a dire di no. Che altro, vorresti un cane ma il fatto che vivi da solo ti impedisce di prenderlo, perchè altrimenti lo faresti stare solo tutto il giorno. Il fatto che i capelli bianchi ti mettano ansia lo mascheri dicendo che il “brizzolato” ti dà l’aria da uomo vissuto, non hai il coraggio di tingerti i capelli perchè lo reputi poco mascolino. Ti bastano pochi decimi di febbre per metterti k.o. in un letto, sei cagionevole quanto un bambino di pochi giorni, ma questo non lo dici mai a nessuno. – Rimase in silenzio, probabilmente non sapeva che dire. Non c’era modo in cui io avessi potuto sapere tutte quelle cose. – Ti prego Mark, dammi una mano. – gli dissi con gli occhi lucidi. Per un attimo mi fermai a riflettere su quanto fosse stancante non essere creduti, sembrare pazzi. – Perchè sai tutte queste cose su di me? – mi chiese allentandosi il nodo della cravatta. – Te l’ho spiegato, sei il mio migliore amico. Eri mio fratello. – mi accesi una sigaretta dal nervosismo, dovevo cercare di calmare l’ansia che avevo dentro. – Dammene una – mi disse – e rispiegami sta storia – si sedette sulla poltrona ed io ricominciai a parlare.

Martin, se ci sono io in questa tua nuova vita, è plausibile che ci sia anche Emma, magari non è la tua ragazza, magari non è tua moglie, però esiste. La conosci. Dobbiamo solo scoprire chi sia. Rubrica alla mano, chiamiamo tutte le donne che hai sul cellulare, le incontriamo tutte e vediamo chi è. Non ce l’hai una foto? – scossi la testa. Lui sbuffò – Sarà una cosa lunga, ma è un piano migliore del girare per la città sperando di incontrarla. – Aveva ragione. – Mark, io sono fidanzato? – chiesi ripensando al biglietto che avevo trovato accanto alla busta della spesa quella mattina. – Io ti do una mano, ma in questo mondo mi chiamo Richard, smettila di chiamarmi Mark. Comunque si, stai con una, ma non ho idea di chi sia. – Sbuffai e poi guardai l’orologio, si erano fatte le sette. Dovevo tornare a casa e scoprire chi fosse la mia donna. – Posso chiamarti domani? – gli chiesi timidamente. – Domani devi venire al lavoro, ci vediamo qui e cominciamo quest’impresa. – si alzò dalla poltrona e mi diede una pacca sulla spalla. – Mi dispiace per quello che ti è successo. Spero tu riesca a tornare a casa, Martin. – gli sorrisi e dissi – Tu sei Richard, ma io sono Travis. – Annuì ed uscendo rispose – Travis! – come a volerlo confermare. Presi le mie cose ed uscii dall’ufficio.

Decisi di tornare a casa a piedi, dovevo cercare di calmare i nervi prima di tornare in una casa che non era mia con dentro una donna che non era la mia. O almeno le possibilità erano molto poche. Una volta arrivato sotto casa mi accesi una sigaretta ritardando sempre di più il momento di salire, che però arrivò inesorabile cinque minuti dopo. Girai la chiave nella toppa, non c’era la doppia mandata quindi lei era già dentro. Il cuore batteva all’impazzata, la speranza di trovare Emma in quell’appartamento stava rischiando di farmi venire un infarto. Spalancai la porta ma in cucina non c’era nessuno. La richiusi dietro di me e cercando di sembrare il più naturale possibile dissi. – Sono a casa… – rimasi in ascolto qualche secondo, posando la ventiquattrore a terra. Sentii un rumore d’acqua e mi diressi verso la camera da letto. Qualcuno si stava facendo una doccia, io nel frattempo mi levai la cravatta e mi sedetti sul letto.

Dieci minuti dopo il getto s’interruppe, lei uscì dalla doccia. La sentii prendere gli asciugamani. Non stavo più nella pelle. Aprì la porta.

Non era Emma.

4.

Mi vibrò la tasca, ero ancora seduto sulla scalinata del liceo dove insegnava Emma. Guardai lo schermo dirmi che una certa Monica voleva che le rispondessi. Tolsi la vibrazione e lo rimisi in tasca senza rimorsi. Come avrei fatto a trovare Emma in una città così grande, senza nemmeno essere sicuro di essere me stesso. Martin Garlen aveva preso la mia vita nel giro di una notte, dovevo solo capire se aveva preso anche lei, dovevo capire se la conoscesse. Mi alzai finalmente dalle scale e fermai un taxi alzando un braccio. Passai sotto quella che era casa nostra e chiesi al tassista di aspettare. Scesi dalla macchina e mossi qualche passo verso la porta prima di vedere un uomo ed una donna uscire da lì. Non era Emma, non abitava più lì, forse non ci aveva mai abitato, altre persone dormivano tra le nostre lenzuola, altri facevano lì l’amore. Odiai gli inquilini della mia vita e li fissai finchè non scomparvero in una berlina grigia. Tornai dal tassista e mi feci riportare a casa. Era ora di pranzo. Entrando nel palazzo il portiere mi salutò di nuovo, rimasi a guardarlo per qualche secondo. – Ho dimenticato le chiavi in casa, mi può aprire? – dissi con tono annoiato. Annuì e si avviò verso l’ascensore, io lo seguii. Mi fece entrare in casa, non lo ringraziai nemmeno. Quel non sapere chi fossi, dove fossi e che vita stessi vivendo, aveva cominciato a sfiancarmi. Andai in cucina e trovai due buste della spesa ed un bigliettino. “Stasera pizza e film?” uno smile finiva la frase. Chi diavolo era entrato in casa? Forse era Monica, quella che mi aveva chiamato prima, forse avevo una ragazza. Perchè non c’era nemmeno una foto in casa? Aprii il frigo e trovai una birra, la stappai e cominciai a bere. Andai nel corridoio con le cornici vuote e mi appoggiai alla finestra fissandole. Chi piomberà a casa del signor Martin Garlen stasera? Improvvisamente sperai che fosse Emma, sperai che in quel mondo così diverso le cose importanti fossero rimaste uguali. Magari ero Martin Garlen e stavo con Monica Nonsochè ma in realtà eravamo sempre Travis ed Emma. Mi ritrovai a fremere per quella pizza e quel film. C’era solo un modo per saperlo. Presi una sigaretta e la accesi, poi presi il cellulare e chiamai Monica. – Signor Garlen? – disse una voce squillante all’altro capo del telefono. Non poteva essere la mia ragazza, eliminai Monica dalla mia lista mentale, ma magari potevo ancora essere fidanzato con l’alter ego di Emma. – Si? – dissi, curioso. – Mi sono preoccupata non vedendola arrivare a lavoro. Di solito avverte. – la mia segretaria? Probabile. – Ho avuto una nottataccia e mi sono svegliato tardi. – dissi stropicciandomi gli occhi ed aspirando una lunga boccata di fumo. – Mi dispiace – disse – Riesce a venire dopo pranzooppure vuole che le sposti la riunione a domani? – Non sapevo dove cercare Emma, un pomeriggio passato a vagabondare per la città mi avrebbe distrutto, avrei in ogni caso dovuto aspettare la mia ospite per la cena, così decisi di dire – Sto arrivando, prepara le carte per la riunione – almeno avrei saputo di cosa si trattasse.

Mangiai quello che la sconosciuta aveva portato a casa, un po’ di prosciutto ed un po’ di pane, tutto annaffiato da una birra. Avrei voluto Mark, avrei voluto che mi desse una mano in quel casino. Come facevo a svestirmi degli abiti Garlen ed a riprendere i miei? Mi mancava Emma. Mi sentivo talmente perso che avevo voglia di piangere, mi sentivo come una di quelle non-fotografie appese al muro, mi sentivo un’esistenza persa da qualche parte, una persona dimenticata da tutti, una cornice vuota. Scoppiai a ridere, probabilmente per non piangere.

Stavolta presi le chiavi di casa ed uscii, portandomi le sigarette. Sapevo dove fosse l’ufficio, ero andato a farci un colloquio di lavoro, non era distante a piedi e decisi di fare due passi per rimettere in ordine i pensieri. Il portafogli pesava nella tasca, dovevo rendermi conto della vita di quello sconosciuto per cercare di gestirla al meglio. Camminando esaminai bene tutto il contenuto di quell’orrido oggetto pitonato, era l’unica cosa che mi avrebbe potuto far capire chi fosse quel dannato Garlen. Trovai il bigliettino da visita di un operatore bancario, decisi di tentare la sorte e di provare a vedere se Martin tenesse lì i suoi risparmi. Mi guardai intorno e chiesi dove potessi trovare quella banca ad una guardia giurata fuori ad un negozio. Mi disse la strada da fare e decisi di allungarmi, del lavoro poco mi interessava. Cinque minuti dopo varcai la soglia dell’enorme edificio bancario e dato l’orario scomodo dovetti aspettare poco per poter arrivare allo sportello informazioni. Mi sedetti ed iniziai a parlare con l’impiegato. Gli misi la carta d’identità sulla scrivania e chiesi il saldo del mio conto bancario. Senza guardarmi negli occhi si fece scivolare il documento sotto le dita e prese a digitare sulla tastiera, ormai usurata. Sembrava un automa, parlava lo stretto necessario e non guardava mai negli occhi, il fatto che ci impiegasse del tempo mi fece intendere che ero cliente di quella banca, altrimenti mi avrebbe detto di non aver trovato nessun risultato. Dopo cinque minuti di incessante battere di tasti, premette un pulsante sulla stampante e ne fece uscire un foglio ancora caldo. Lo avvicinò a me dicendo – Prego… – Lo presi dalla scrivania e lo osservai. Porca puttana. Quel bastardo era un fottuto milionario, mi persi contando le cifre e dovetti ricominciare da destra, prendendone tre alla volta. Mi alzai e salutando distrattamente l’impiegato uscii dalla banca. Uno, due, tre. Quattro, cinque, sei. Sette, otto. Otto cifre di conto bancario. Mi fermai un attimo a prendere fiato, strappai il foglio che avevo in mano e lo buttai in un cestino. Otto cifre di conto bancario. La mia mente non aveva mai nemmeno pensato ad una cifra così alta. Martin Garlen il milionario, ed a quanto pare ero io costui. Sorrisi. Se non altro, in quel casino, mi sarei potuto togliere qualche sfizio.

Dopo qualche minuto arrivai in ufficio, mi feci indicare il piano chiedendo di Monica, cercando di non dare nell’occhio, non sarebbe sembrato normale che non sapessi il piano dove lavorassi. Dopo aver cambiato un paio di ascensori, spinsi la porta di vetro che mi separava dal mio settore.

Martin, ti stanno aspettando cazzo, muoviti. – Un eleganitissimo Mark mi prese per il braccio e mi trascinò in sala riunioni. Sorrisi.

 

3.

Quando mi svegliai mi faceva ancora male la testa, l’abito sgualcito mi si era attaccato alla pelle. Ero ancora in quell’appartamento. Mi si strinse il cuore dalla delusione, avevo davvero sperato di vedere Emma accanto a me. Mi alzai cercando di controllare il panico, allentai il nodo della cravatta, poi ci ripensai e la tolsi buttandola sul letto. Mi sfilai la giacca e mi sbottonai la camicia, avevo bisogno di respirare per mantenere la calma. Catturai tutta l’aria possibile con i miei polmoni, istintivamente riallungai la mano verso la giacca e ne tastai le tasche, erano vuote. Mi guardai intorno, aprii il cassetto del comodino e le trovai. Presi il pacchetto di sigarette aperto e ne sfilai una. Feci il giro della casa fino ad arrivare in cucina e la accesi con il fornello. Mi appoggiai al ripiano di marmo inspirando una grossa boccata di fumo. Il primo posto dove le avevo cercate era stato il cassetto del comodino, esattamente dove io le mettevo di solito. Guardai l’orologio appeso al muro, erano le dieci di mattina. Ma che giorno era? C’era un portatile appoggiato ad una scrivania in salotto, lo accesi. 12 marzo 2012, ieri era l’undici. Girando per i documenti del proprietario del computer vidi che si chiamava Martin Garlen. Aprii la posta elettronica. Lavorava per la più importante compagnia assicurativa della città, ricordo che respinsero la mia richiesta di assunzione, almeno cinque anni fa.

Martin Garlen, chi sei signor Garlen? Perchè sono a casa tua? Forse era il tipo che aveva parlato alla segreteria telefonica la notte scorsa. Mi alzai lasciando il computer acceso. E se fosse tornato all’improvviso e mi avesse trovato a casa sua? Che gli avrei detto? La sigaretta finì, la spensi sotto al lavandino e poi la buttai nella spazzatura. Tornai in camera da letto per prendere la giacca, dovevo andare a cercare Emma, dovevo tornare a casa. In corridoio c’erano decine di cornici appese al muro, senza fotografie. Sembrava il mosaico di una storia dimenticata, sembrava una composizione di ricordi sbiaditi che avevano lasciato spazio al muro sottostante. Mi fermai a guardarle, chi può appendere cornici al muro senza fotografie? Che razza di uomo era questo Garlen? Avevo bisogno di contanti, sul comodino c’era un portafoglio in pelle di serpente, una cosa orribile. Sembrava fissarmi immobile. Mi avvicinai e lo aprii, c’erano cinquecento dollari in contanti che mi scivolarono sotto le dita nel contarli. Rigirai il portafogli tra le mani e poi presi ad esaminare le carte che conteneva. Almeno cinque diverse carte di credito e varie tessere di club della città. Una per la palestra. Concentrato sullo scoprire tutto su quel Garlen mi sorpresi nel trovare per ultima la tessera della patente. Mi si gelò il sangue nelle vene quando, girandola, trovai la mia foto con sotto scritto: MARTIN GARLEN. Mi pervase il panico. Presi le banconote e scaraventai il portafogli contro il muro. Uscii di casa.

Presi l’ascensore e corsi per l’androne del palazzo. Un uomo era vicino al portone, lo aprì dicendo – Buongiorno signor Garlen – lo fissai immobile. Non risposi e scappai via. Fermai un taxi in mezzo alla strada quasi impedendogli di proseguire, entrai con violenza dentro e gli dissi di andare al liceo dove lavorava Emma. Guardavo la città scorrere sotto i miei occhi, le stesse strade su cui avevo camminato da Travis Russell ora le stavo percorrendo da Martin Garlen. Cosa diavolo era successo quella notte, come avevo fatto a trovarmi con una nuova identità nel giro di poche ore? Il cuore continuava ad avere un battito accelerato, dovevo trovare Emma, dovevo tranquillizzarla, sicuramente era preoccupata per la mia scomparsa. Allungai una banconota da venti al tassista non appena frenò davanti al cortile del liceo, scesi senza aspettare il resto, corsi le scale che portavano all’entrata e spinsi la grossa porta a vetri. All’ingresso c’era una signora dietro una scrivania indaffarata a scrivere al computer. – Prego..? – chiese guardandomi dietro i suoi occhiali. – Emma Carlson.. – dissi cercando di riprendere fiato, mi bruciavano i polmoni. – Mi scusi? – chiese tendendo l’orecchio. – Emma Carlson, sto cercando Emma Carlson – dissi alzando un po’ troppo la voce. – Ho capito… – mi ammonì – Se è per un’uscita in anticipo deve andare a farsi dare il permesso in segreteria, mi dica la classe della ragazza… – Appoggiò le mani alla tastiera pronta a digitare. Io scossi la testa agitandomi – La professoressa Emma Carlson – Quella donna mi stava irritando. Si tolse gli occhiali e mi guardò sospirando – Qui non insegna nessuna Emma Carlson, forse può essere in supplenza magari. – Scossi la testa, era di ruolo. – Dov’è la presidenza? – mi avviai lungo il corridoio senza aspettare la risposta. – Dove va? Lei non ha il permesso di entrare. – La goffa signora si alzò dalla sua scrivania rincorrendomi. Accelerai il passo e svoltando un paio di volte riuscii a trovare la presidenza, grazie ad un bidello. La signora continuava ad urlare dietro di me. Spinsi la porta senza nemmeno bussare. – Chi diavolo è lei? – mi disse il preside visibilmente infastidito dalla mia irruzione, qualche secondo dopo mi raggiunse la signora dell’ingresso e disse – Mi scusi signor preside, non sono riuscita a fermarlo… – Le fece cenno di andare. Chiuse la porta dietro di sè. – Emma Carlson, ha preso un giorno di permesso? L’avete licenziata? Me lo dica.. – ripetevo compulsivamente il suo nome, come se avessi bisogno di renderlo reale. Mi appoggiai con entrambe le mani alla scrivania aspettando una risposta. – Signor…? – chiese il preside. – Russell. – risposi io istintivamente. – Signor Russell, onestamente, io non so di cosa lei stia parlando.. – si appoggiò allo schienale della sedia. – Sto cercando Emma Carlson, e lei adesso me la trova e mi dice dov’è. – Sospirò. – In che classe è? – chiese anche lui. Diedi un pugno sulla scrivania. – E’ una professoressa. Cazzo. – Il preside si alzò, perdendo la pazienza. – Non mi faccia chiamare la polizia. – Tuonò severo. – Stia calmo e non si cerchi problemi. – Alzai le mani in segno di scuse. – Voglio solo sapere dov’è la professoressa Carlson. – feci qualche passo indietro per fargli capire che non ero una minaccia. – Bene – disse sistemandosi la giacca – Mi dispiace, signor Russell, qui non insegna nessuna professoressa Carlson. Forse ha sbagliato istituto. Ed ora cortesemente, tolga il disturbo – Si sedette di nuovo e smise di guardarmi. Uscii dal suo ufficio in preda allo sconforto, cercare di insistere sarebbe stato inutile, non sapevano chi fosse. Uscii anche dalla scuola passando davanti alla signora che mi fulminò.

Mi sedetti sui gradini delle scale che conducevano alla strada.

“Qui non insegna nessuna professoressa Carlson.” La mia testa non mi dava tregua, mi sentivo smarrito nella mia città. Tra me e me pregai Emma di trovarmi e di mettere fine a quell’incubo.

Mi alzai ed accesi una sigaretta. Dovevo trovarla.

2.

Guardai il suo cellulare vibrare, alzai gli occhi su di lei aspettando che se ne accorgesse da sola. Era troppo presa dal suo libro. Mi alzai dal divano mordicchiando un’unghia, presi il cellulare e glielo porsi. Sussultò e lo prese dalla mia mano. Mi guardò fisso negli occhi mentre continuavano a chiamarla. – Non rispondi? – le chiesi perplesso. Scosse la testa – Non voglio rotture di scatole di domenica – che rotture di scatole poteva mai avere una professoressa di domenica? Mi strinsi nelle spalle, non mi riguardava. Andai in cucina a bere. Sputai l’unghia che avevo in bocca per terra, con un occhio controllai che Emma non mi avesse visto. Sorrisi compiaciuto come un galeotto che l’ha fatta franca e mi versai da bere. Mi sentivo strano quel giorno, qualcosa non andava ma non riuscivo a capire cosa. Mi si era completamente chiuso lo stomaco, strano. Andai in camera nostra e mi sedetti sul letto. Mi guardai nello specchio qualche minuto, la barba avanzava sul mio viso come un rampicante, la dovevo tagliare, era diventata troppo lunga. Mi piaceva avere un velo di barba ma non doveva superare il centimetro di lunghezza, mi dava fastidio altrimenti. Emma aveva provato a farmela tagliare, le dava fastidio quando la baciavo, ma ad ogni tentativo fatto tornavo a farmela crescere, era come un vestito che non potevo non indossare, mi sentivo nudo senza. La accarezzai e poi mi stropicciai gli occhi. Stavo invecchiando.

Trentacinque anni. Qualcosa non andava, si, ma cosa? Cercavo di sgombrare la mente per trovare il problema, come quando perdi qualcosa, sai che è in quella stanza ed inzi a spostare tutti i mobili. Non era il mio matrimonio il problema, non era il mio lavoro, non era la mia vita. Chiusi gli occhi. Quanto dev’essere infelice un uomo che sforzandosi di trovare un problema non ne trova nemmeno uno? Forse avevo ambizioni troppo banali. Forse volevo troppo poco dalla vita. Mi stupii nel trovare il vuoto. Non avevo problemi, non avevo preoccupazioni, non avevo nessun motivo per lamentarmi. Calma piatta. Il sogno americano. Scoppiai a ridere stendendomi sul letto. Non avevo problemi, ero felice, avevo tutto ciò che avevo sempre desiderato, tranne un figlio. Allargai le braccia ed accolsi questa sensazione come un regalo dal cielo, per quanto sentissi che il non avere problemi fosse in realtà un problema, non mi sembrava il caso di infelicitarmi quella domenica pomeriggio per quello. Sarebbe stato da psicopatici.

Un battito di cuore, un rumore assordante, alcuni vetri rotti. La luce andava e veniva, mi sentivo come se fossi stato semi cosciente. Il mio cervello si accendeva e si spegneva ad intermittenza, come un vecchio neon. C’era del sangue a terra. Mi faceva davvero male un braccio. Avevo il sapore del ferro in bocca, era il mio sangue?? – Emma.. – Svenni.

Avete chiamato.. – Aprii gli occhi – Il 024178495, non ci sono, lasciate un messaggio – Bip. Mi guardai intorno, dov’ero? – Rilassati – disse la voce al telefono, mi misi a sedere sul letto – Sono le tre del mattino. Prendi fiato. Questa è casa tua – mi guardai intorno, ovviamente non era casa mia. – Non c’è nulla da capire, ti sei preso una brutta sbronza e ti sembra di non ricordare nulla. Rimettiti a dormire e domani ricordati di andare in ufficio. – Attaccò. Mi faceva male la testa. Ma chi era quell’uomo?

Mi alzai in preda al panico, dov’era Emma? Girai quell’appartamento in lungo ed in largo, non avevo la lucidità per apprezzare quanto fosse bella. Era un lussuoso appartamento all’ultimo piano di un grattacielo. Dalla finestra potevo vedere tutta la città. Mi tastai le tasche e trovai un cellulare, lo presi e composi il numero di Emma. – Il numero da lei selezionato non è attivo. – Rimasi a guardare il display odiando quella voce registrata che mi disse la stessa identica cosa tutte e venti le volte che riprovai. Tentai con il numero di Marc. Stesso risultato.

Mi sedetti sul letto in preda allo sconforto. Mi faceva male la testa, forse rimettendomi a dormire mi sarei svegliato nel mio letto il giorno dopo. Forse il signore della segreteria aveva ragione, mi sono preso una bella sbronza e sono finito a casa di chissà chi senza nemmeno rendermene conto. Mi stesi, dopo cinque minuti ero in posizione fetale, avevo paura per Emma. Sfinito, alle cinque, crollai.

1.

L’inizio è la parte più complicata, è come entrare in una stanza e sentirsi a proprio agio, bisogna far sentire aria familiare, bisogna rassicurare l’invitato che non c’è nessun pericolo. Sto fumando una sigaretta mentre cammino al lato di una superstrada diretta chissà dove. Le macchine mi sfrecciano accanto, sembrano non accorgersi di me, il vento le insegue e mi scompiglia i capelli. Sorrido. E’ il primo giorno di vita negli ultimi trentacinque anni. Sono vivo, sono libero. Iniziare col piede giusto richiede il chiudere i conti col passato, lo faccio ora, lo faccio con te che leggi. Ti racconto quello che è successo, ti lascio la chiave per chiudere questo cassetto. A me non serve più.

Ho l’ovulazione – mentiva. Guardai Emma negli occhi sorridendo mentre bevevo il mio caffè. Le feci un occhiolino e rimasi in silenzio. Avevo trovato una confezione a metà di pillole anticoncezionali nella sua borsa pochi mesi prima. Volevo un figlio. Lei non aveva il coraggio di dirmi che lei invece non lo voleva, probabilmente affrontare quel discorso avrebbe lentamente ucciso il nostro matrimonio. Speravo che un giorno, senza motivo, avrebbe cambiato idea. Facevo finta di crederle perchè l’amavo davvero tanto. Finii il mio caffè, le diedi un bacio in fronte – Ci vediamo stasera – sorrise. – Ti amo – disse mentre prendevo da terra la ventiquattrore, era amaro come un bacio di Giuda, saturo di sensi di colpa. Sorrisi. L’avevo perdonata ancora prima di accorgermene. Andai in ufficio, lavoravo in un’azienda assicurativa. Arrivavano ogni giorno decine di moduli con le storie di sconosciuti, i loro passati clinici e le loro abitudini di vita. Dovevo fare un calcolo statistico su quanto fosse conveniente assicurare o meno la vita di quelle persone. La casalinga sì, il paracadutista no, il cardiopatico nemmeno, il fumatore incallito forse, il padre di famiglia sì. Era una scelta basata su modelli matematici, non c’era spazio per diventare parte di quelle storie, non potevo lasciarmi coinvolgere dalla storia di un uomo malato che voleva lasciare qualcosa alla famiglia. Erano affari. Capitavano volte in cui avevo la sensazione di essere come uno di quei nazisti che decidevano della vita e della morte delle persone, scacciavo subito quel brivido che mi percorreva la schiena. Non ero così, era un lavoro come un altro, facevo solo quello che mi chiedevano di fare, la matematica e la statistica gestivano i sensi di colpa al posto mio. Ero una brava persona, come lo erano tutti i miei colleghi. La mia vita era una scrivania, un computer, una chiacchiera con la segretaria del capo, una sigaretta durante la pausa pranzo, un panino preso al volo sotto l’ufficio. Non lo trovavo noioso, avevo Emma ad aspettarmi a casa, avevo amici, soldi e famiglia. Amavo la mia vita.

Tornai a casa, facemmo l’amore prima di cena, fu tenero, calmo, lento. Mentre lei era in cucina a preparare da mangiare io mi feci una doccia. A tavola mi raccontò che la madre di un suo alunno era andata da lei dopo la fine delle lezioni a lamentarsi perchè lei il giorno prima aveva sgridato il figlio. Cominciò ad inveire contro i “genitori di oggi” – Quando noi andavamo a scuola – disse mentre masticava un pezzo di carne – Il professore aveva sempre ragione, i miei non mi hanno mai difesa, neanche quando subivo qualche ingiustizia. Non dico che si debba fare così, però quel ragazzino è un maleducato, è parte del mio compito quella di insegnargli l’educazione, visto e considerato che i genitori a quanto pare hanno saltato questo capitolo quando gli hanno insegnato a relazionarsi con un adulto. – La ascoltavo, le davo ragione. Osservavo dietro di lei il salone, vuoto ed immobile. Vidi per un attimo un bambino seduto sul tappeto giocare con una macchinina, sorrisi. In quella casa faceva freddo. Quanto avrei voluto un figlio. Tornai con lo sguardo su di lei, sapevo quanto le desse fastidio che fossi distratto mentre mi parlava, a volta mi trattava come uno dei suoi alunni. Continuò il suo sermone su quanto i ragazzi di oggi sono privi di ogni interesse. – Emma, gli adolescenti sono così da che mondo è mondo. Io a quindici anni pensavo solo a fumare canne ed a fare sesso – Mi fulminò. – Finchè non ho incontrato te – dissi prendendola in giro, pur sapendo che si sarebbe arrabbiata. Risi mentre lei finì il suo piatto contrariata dal fatto che non le avessi dato ragione. Presi un bicchiere di vino dalla credenza, lo riempii quasi fino all’orlo e me ne andai in salotto mentre lei metteva a posto, le diedi un bacio. Stavolta Giuda ero io.

Guardammo un film insignificante, io finii il mio vino e fumai una sigaretta, stavo cercando di smettere. Fumavo un pacchetto al giorno finchè non dovetti barattarne quindici per poter portare a casa un cane. Ora me ne restavano cinque al giorno, Emma era soddisfatta e si era anche affezionata al cane. Brutta storia i compromessi, ma almeno Dot mi faceva compagnia, riempiva un po’ quella casa enorme. Alle undici squillò il telefono – Bello, sono fuori casa tua con sei birre – Marc, l’amico di una vita. – Mi devo svegliare presto domani – Non rompere il cazzo, ho bisogno di bere. – Attaccai. – Cerco di fare in fretta, se hai sonno vai a letto – le dissi. Non c’era bisogno di spiegarle la situazione, succedeva spesso. Uscii di casa ed entrai nella macchina di Marc. Mi passò una birra e cominciò con la solita storia – Quella stronza mi vuole togliere tutto – disse. Gli avevo detto di non sposare quella donna, ma evitai di sottolinearlo. Lo ascoltai, bevvi un paio di birre e come al solito si fece tardissimo.

Quando mi infilai a letto Emma dormiva, mi avvicinai e le diedi un bacio sulla guancia. Rimasi a guardarla per qualche minuto e poi, la notte prese anche me.

Tabula Rasa.

Le persone possono distruggerti. Dovrebbero scriverlo sulle magliette, come sui pacchetti di sigarette. Almeno una volta a pezzi, una volta che ti hanno devestato, puoi avere la consolazione del “Vabbè, m’avevano avvertito”. La vita a volte ti investe come un treno, fa retromarcia, ti investe di nuovo e di nuovo e di nuovo, finchè davvero di te non rimane nulla. Una volta passata la tempesta, guardi i pezzi di te sparsi ovunque, alcuni volati via col vento, altri inutilizzabili, altri scheggiati e rotti e non puoi fare altro che chiudere tutto in uno scatolone, sigillarlo con il nastro adesivo, scriverci su “RIFIUTI PERICOLOSI” ed andare avanti.

Nuova vita. Nuovo Blog. Non sarò qui ad annoiarvi con storie personali poco interessanti e soprattutto che non vi toccherebbero minimamente. Sono qui per fare quello che facevo sul vecchio Blog, sono qui per raccontare storie, di quelle che ti vengono in mente all’improvviso e scalpitano per venire fuori. Sono qui per farmi aiutare da voi a renderle leggibili e per avere la vostra approvazione.

Ho strappato tutte le foto, ho buttato via i ricordi, ho chiuso il cassetto della mente che affaccia sul mio passato. Ho bisogno di vita, ho bisogno di qualcosa di bello… “Ho bisogno di credere che qualcosa di straordinario sia possibile”, A Beautiful Mind docet.

Dunque, benvenuti stranieri, bentornati vecchi aiutanti.

Ricominciamo tutto. Ricominciamo insieme.

Dopotutto, mi ricordo quando ero felice, quando mi piaceva il mondo in cui vivevo.. Anzi.. Sembra Ieri.